La Pantera Rosa, la Regina e Mrs. White 6

Sii gloriosa, nostra Patria libera,
Unione eterna di popoli fratelli,
Saggezza ereditata dai nostri antenati!
Sii gloriosa, patria, siamo orgogliosi per te!
-Inno della Federazione russa-

Brevissimo riassunto: sono a Buckingham Palace, pronta a rubare la Pantera Rosa, e chi ti incontro? Il fellone e traditore Jonathan insieme a Olena, stangona russa e arida come le steppe sconfinate della Siberia. Che altro aggiungere? Rien de rien: leggete e soffrite avec moi!

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Amici miei adorati, è inutile negare che l’inaspettata visione di Jonathan, tirato a lucido e con faccia impunita, accanto alla sventolona russa, algida e svettante, mi crea nocumento, molto nocumento. Mi servirebbero tosto un paio di coltelli e un paio di tacchi. Anche una bella frase d’effetto sarebbe utile, ma nella mia testa le parole giocano a nascondino, e io resto muta, con le spalle al muro.

“Tu volere Pantera Ruosa, vero?” La panterona cosacca attacca per prima e mi procura una ferita grave.

Jonathan il fellone mi spara un ghignetto fastidioso quanto il prurito alla schiena quando hai le mani occupate, e mi finisce: “Da sola non ce la potrai fare, pet!”

Ah, destino infingardo! Sono una ladra e non sono una santa, ma proprio in questo frangente devi usare la carta del karma e farmi pagare il fio con il traditore e la sua compare siberiana, strafottente quanto lui? Sei un destino avverso, ingrato, vendicativo. Stronzo, ecco!

Stringo i pugni fino a conficcarmi le unghie nella carne e scosto il ciuffo ribelle dalla fronte con un gesto secco del capo; sollevo il mento e pianto le iridi indignate dentro le iridi di Jonathan. Sono azzurre, chiarissime ma, quando immergo lo sguardo, raccolgono il cupo grigio dei suoi fondali misteriosi, che neppure io conosco.

Finalmente scovo le parole; attingo gocce di coraggio dai miei anni di esperienza in situazioni pericolose (vedi alla voce: guardie e ladri), e mi sorprendo calma, presente, ma con i sensi vigili, pronti a indicarmi la via di fuga più vicina: “Mi costringi a giocare a un gioco di cui non conosco le regole, mentre io non vorrei neppure sedermi al tuo stesso tavolo…” Vedo le pupille di Jonathan che si restringono, assestandosi alla nuova fonte di luce.

Getto un’occhiata lesta alla mia sinistra sperando di scorgere Wanda, ma so che si è piazzata vicino all’ingresso principale, per tener d’occhio chi entra e chi esce, soprattutto se in completo nero e con auricolare all’orecchio.

Olena si stacca dal braccio del fellone e controlla il cronometro futuristico che porta al polso: “Tempo passa veluoce, donna: dobbiamo entrare!”

Non so se mi irrita di più sentirmi dare ordini da una sconosciuta che potrebbe tranquillamente sfilare sulla passerella di Victoria’s secret o essere chiamata “donna” dalla suddetta; schiaffo il muso sotto il suo mento e sibilo: “Назовите меня миледи, женщина! (Chiamami milady, donna! )”

Il viso della stanga russa si disgela in un sorriso al sapor di stricnina; si mette sull’attenti con fare teatrale, schiocca la lingua e cantilena: “да… mi.la.dy…”

L’atmosfera si fa elettrica: scintille, fulmini e saette scaturiscono in maniera spontanea sulla nostra testa, rischiando di creare uno tsunami emotivo che potrebbe compromettere l’esito della missione e, forse, innescare una guerra tra potenze.

Jonathan, lesto di mano e di cervello, si appropinqua in modo sconsiderato alla mia persona; è entrato in modalità ladro internazionale, e la sua espressione è implacabile. Ha smesso di sorridere e si prepara al placcaggio: “Tutto questo ha un senso, Faf, credimi! Segui il tuo istinto: segui me!”

E mi prende per mano.

Mi lascio guidare come fossi in un sogno, ma per pochi secondi. Mi blocco, sbattendo contro il petto senza battito di Olena, e mi divincolo dalla mano di Jonathan: “Perché devo crederti? Chi sei? Che vuoi?”

Mi giro verso la donna alle mie spalle e la fronteggio, in chiara disparità d’altezza e non solo: “E chi sei tu? Che ci fai qui? Che ne sai? Che ne sai?”

Sto perdendo il controllo. Sono una femmina isterica che ha scoperto il suo uomo con l’amante nel talamo coniugale. Sono la professionista gabbata che sa di essere stata tradita dal suo braccio destro. Sono un corpo che ha perso un arto. Un sacco vuoto. Un fiume in piena.

Olena estrae da non so dove (forse uno stivale) il suo cellulare; compone un numero, attende pochi secondi poi ordina: “Finuocchietto, tu parla con milady, da?”

Mi avvicina il cellulare all’orecchio. Dall’altra parte, la voce più flemmatica del Regno Unito riesce a scuotermi più del tradimento del fellone: “Milady? Sono James… la prego di ascoltarmi con attenzione: conosco Olena e mi permetto di garantire per lei. Si fidi di me, o non sarò più degno di essere il suo maggiordomo!”

L’ultima affermazione ha il potere di scatenarmi un terremoto sotterraneo. James è il mio punto fermo, l’emblema della lealtà a tutto tondo, una figura paterna. Ma non ho tempo di interrogarmi: Jonathan mi fa un cenno col capo che mi spinge ad affrettarmi, a seguirlo, a non mettere in dubbio la nostra assurda collaborazione a tre. A dopo le spiegazioni, a dopo i confronti!

Ci muoviamo in silenzio, attenti a ogni segnale di presenze inopportune. Jonathan conosce la strada verso la cassaforte reale. Olena è accanto a me, agile nonostante l’abbigliamento non propriamente da addetta ai lavori.

Superiamo un corridoio, un altro,  e ci addentriamo nelle sale private del palazzo. Scendiamo una rampa infinita di scale, e ci fermiamo davanti alla cella di sicurezza che ci separa dalla Pantera Rosa. Una porticina si apre sulla parete opposta.

E Wanda appare.

Seria, tesa. Si scosta dall’ingresso, e io intravedo uno scorcio di intimo salottino. Un angolo di tappeto persiano, le gambe intarsiate di un tavolino, le gambe graziosamente composte di una donna seduta in poltrona.

La porta si spalanca.

Sulla poltrona, con un sorriso bonario e le braccia abbandonate sui braccioli, lei.

Lei.

La regina.

In carne e ossa.

Mi osserva, continuando a sorridere, e mi dice. “Niente cerimoniali, mia cara”, mostra con la mano la poltrona che ha di fronte e conclude: “Si sieda e mi ascolti. Vorrei cambiare i termini del suo contratto di lavoro!”

Ditemi voi se questo non è barare! Qui tutti barano, e io sono l’unica senza assi nella manica… Che cosa vorrà Queen Elizabeth dalla sottoscritta? Restate sintonizzati su questo canale: la vostra ladra preferita non vi deluderà!

Shetland (good, old post)

“On a clear day you can see Norway over that way.” “In una giornata limpida riesci a vedere la Norvegia laggiù.”

“We’re all connected, in a way or another, in Shetland.” “Siamo tutti connessi, in un modo o nell’altro, nelle Shetland”

Shetland – serie tv tratta dai romanzi di Ann Cleeves.

Mi sono impossessata dell’atmosfera greve e sonnambula della serie televisiva, popolata di personaggi schiacciati dall’isolamento e dalla lenta cadenza del tempo, scartavetrati dalla bellezza ruvida e senza pietà di una terra più scandinava che scozzese.

Questa serie televisiva inglese è una meraviglia! Si trova con i sottotitoli, I know, ma è un capolavoro di bellezza, efferratezza, scozzesità. Parola di Missis!

Niente verdissimo che affonda nelle nebbie, e il mare.
Una fattoria di assi bianche: sembra costruita con le lego, laggiù, in mezzo ai silenzi sferzati dai venti vichinghi.
Torbiere profonde e nere dove nascondersi, oppure cadere e morire, con la bambola stretta tra le braccia e le scarpette con le fibbie sporche di fango ai piedi.

Anche su un’isola quasi disabitata si muore per rabbia o per paura.

Gli abitanti sono consanguinei sospettosi e avari di cuore, fantasmi seduti su una sedia a dondolo, a scrutare un anno di aurora boreale o buio senza sole.
Troppo rassegnati per andarsene, vecchi anche se giovani.
E niente amore, o troppo. Nessuna città.
Solo puntini di case dove stare appartati, nascosti, con le mani sugli occhi e sulle orecchie per non vedere e non sentire la vita che salpa via.

Facile, uccidere.
Concupire, odiare. Provare gelosie fuori controllo. Bramare sogni.

Mentre si celebra un matrimonio tra i sassi e l’erica: la coppia di sposi, vestiti buoni e gote rosse, sotto un arco di fucili incrociati; i bambini, fiori tra i capelli biondi, a spazzare il terreno sterrato per scacciare gli spiriti maligni.
Tutto finisce: il mistero del crimine, le occhiate dietro le tende ricamate a mano, un altro battito d’ore…

In una notte che non vede il giorno.

Metto Lana, ma anche Cindy viaggia veloce

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Is that alright
I drove all night
Crept in your room
Woke you from your sleep
To make love to you
Is that alright
I drove all night

Cindy Lauper

Miei adorati, avete mai guidato tutta notte per qualche ora d’amore? Raccontatemi le pazzie che avete fatto per pochi attimi di passione, di felicità, di pura estasi. Hai voglia la mimosa: mettiti in macchina oggi, 9 marzo, fatti duecento miglia e svegliami buttando sassolini contro la  mia finestra!

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Mi sono fatta amica la distanza: la notte riduce i chilometri in metri, oppure è il buio che rimpicciolisce l’orizzonte, facendomi saltare in macchina e correre verso il tuo ovunque.

Quando l’oscurità si fa fitta, il morso della tua assenza mi prosciuga sangue e saliva. Non ci sei, ma percepisco il tuo fiato sul collo, lungo la spina dorsale che si trasforma in autostrada con un solo casello: la tua stanza d’albergo.

Tu, lontano, sempre dall’altra parte del mio mondo di cristallo e io, alla finestra, a scrutare visi. La luce del giorno rallenta il battito della mia esistenza, illudendomi di saper tenere il tempo.

Ma lo scoccare della mezzanotte toglie il freno a mano del buonsenso.

Un impermeabile indossato sul mio desiderio, benzina. Unghie rosse piantate nel volante, denti piantati nella carne della bocca, impaziente di mappare il tuo corpo. Disperato conto alla rovescia.

E questa canzone.