Mirror mirror on the wall
who’s the fairest of them all?
Sul mio viso adolescente si rincorrevano lentiggini e dubbi che nascondevo tra le onde bionde; alzavo lo sguardo verso il cielo soltanto dentro stanze vuote, dopo il coprifuoco. Scivolavo rasente i muri per confondermi al ruvido grigio, sbucciandomi il cuore.
In classe leggevo a bassa voce, ma la sera cantavo a squarciagola i Simple minds e i Depeche sul mio palcoscenico di lenzuola azzurre, la finestra aperta su cicale e lucciole, con la radio che mandava una canzone dedicata da me a me.
Non conoscevo l’arte di camminare sui tacchi ma ballavo sola, a piedi nudi su un filo sospeso tra la mia isola senza approdi e la terraferma.
Il grande specchio rettangolare riprendeva inesistenti dialoghi, il sorriso di sfida truccato per non uscire di casa, un vestito aderente che non avrei mai indossato fuori dai miei confini protetti. La mia divisa era una camicia a scacchi maschile, ampia quanto il timore di mostrarmi, e pantaloni neri, opachi dove le mani impacciate strisciavano il loro disagio.
Ormai non tremo più da anni, e canto quando mi va di cantare.
Eppure a volte, con la coda dell’occhio, colgo il mio riflesso nello specchio grande, come se non fosse vetro ma pellicola resistente, la fotografia più intima, senza veli: le ciglia abbassate e umide, piccola piccola, sfuocata dal tempo, dalle lacrime, da quel subdolo residuo della paura di vivere che ancora non mi abbandona.