Maybe (forse)

Ba-da-da-da-da, ba-da-da-da-da-da
Ba-da-da-da-da, ba-da-da-da-da-da
Ba-da-da-da-da, ba-da-da-da-da-da
Ba-da-da-da-da, ba-da-da-da-da-da

Emma Bunton

Miei diletti, ci fu un tempo in cui la malizia ancora non aveva incrociato il mio cammino. Il mio sguardo era puro come un torrente delle highlands scozzesi, le mie virginee labbra non conoscevano la pericolosa ed elettrizzante tentazione del turpiloquio e il  cuoricino palpitava davanti ai tramonti, gli agnellini, i fidanzatini di Peynet, Brenda e Dylan.

Osservavo il mondo con occhi teneri e biondi, cullata da leggera miopia.

Indossavo maglioncini d’angora color pastello e mocassini, adoravo i bottoncini di madreperla, le spille per capelli e il mio vicino di casa: aveva i capelli ricci come il riccio di Starsky e Hutch, gli occhi piccoli piccoli e andava sul suo 125 senza casco. Io gli sparavo languide e ametrope occhiate in tralice dietro le lenti degli occhiali e lui smanettava sulla manopola del gas, facendo strisciare sull’asfalto i suoi stivali texani consumati mentre gonfiava il petto come un vero maschio alfa, anche se doveva ancora cambiare la voce.

Un sorso di vodka alla mela mi imporporava le guance, non andavo in discoteca e non avevo mai visto Ultimo tango a Parigi e neanche Arancia meccanica. Però pensavo che Dirty dancing fosse un film molto audace.

Ero innocente, candida, cecata. Al sicuro, perché conoscevo a memoria i confini della mia cameretta bianca.

Un giorno, s’intromise un forse.

Maybe.

Il bianco della mia cameretta esplose in un cataclisma al neon, slacciai tre bottoni di madreperla della scollatura e comprai il mio primo paio di scarpe coi tacchi.

Solo allora cominciai a camminare.

The deep sanctity of cazzeggio

Miei meravigliosi lettori, so che codesto mio aspetto austero fatto di veletta, guanti neri e gramaglie, induce i più sensibili tra voi a pensare che io sia un donnino dedito alla contemplazione lirica, incapace di godere dell’attimo fugace se non ha tra gli artigli un calice di champagnino davanti al tramonto di un mare tropicale, in hotel dalle cinque stelle in su et in compagnia di sagaci professionisti in carriera, magnati e nobiltà, laureati cum laude e in grado di parlare almeno tredici lingue, tra cui il sanscrito e il sumero.

Orbene, per quanto non disdegni quanto sopra (anche se trovo nobiltà, magnati e professionisti in carriera alquanto sopravvalutati in termini di gozzoviglio davanti al tramonto), vorrei portare alla luce la mia vera me, quella che sogghigna sotto la veletta, ricordandovi altresì che ciò che indosso non son più gramaglie (mr. White, buonanima, alberga nel girone infernale che gli compete ormai da qualche annetto), ma l’emblema dell’eleganza e della verità in sé racchiusa: il nero che sfina.

Potrò anche sottoporvi scritti forbiti, vocaboli desueti e prose delicate, ma sappiate che so far uso del turpiloquio quanto in una puntata di Gomorra, che apprezzo un vaffanculo ben piazzato, e che (e sottolineo che), ho una passione smodata per il cazzeggio.

Cazzeggio per puro diletto, sfrontato e senza fronzoli, perché la vita volge al tedio con inusitata sveltezza, lo sfrancicamento di zebedei è appostato dietro ogni angolo e la spessa grevità delle rogne suona all’uscio ogni due per tre.

Viva la leggerezza del cazzeggio, dell’ironia, del sarcasmo, dei capelli folti, le polpette, i brillocchi, le calve tettute, le balere, i tatuaggi sulle chiappe e il ghigno perenne!

E chi non ghigna con me… sticazzi!

Take me somewhere nice

What would you do
If you saw spaceships
Over glasgow?
Would you fear them?

Una domenica di sole e cieli tersi, l’aria ferma, tiepida, e il mare, dopo giorni agitati, che si regala tregua e sonnecchia, placido, muovendosi lo stretto necessario ma compensando con un trionfo sfacciato di colori luccicanti.

Tavolo all’aperto nel ristorante di amici, occhiali neri da diva e giacca appoggiata allo schienale. Un vino francese di cui non ricordo il nome, bianco e profumato. Buona compagnia, incrociata per caso. E, come sempre, le cose che non progetti risultano essere piacevoli sorprese.

A parte l’approprazione indebita, of course. Ma questo è un’altra storia, un capitolo ormai chiuso della mia vita di ex-ladra gentildonna. Ora la mia veletta è immacolata come la fedina penale.

Ma non divaghiamo! Come dicevo, miei adorati, mi ritrovo al desco con il mio accompagnatore di cui non dirò nulla neanche sotto interrogatorio, ma sappiate che è uomo di presenza fisica e spessore morale. E ha una dote impagabile: pensa prima di parlare. Spesso, dopo aver pensato, decide di tacere. Insomma, una perla rara (e voi sapete quanto io ami gli oggetti preziosi). Con noi, i genitori dei gestori del ristorante e un loro amico di vecchia data che conosco per la prima volta. I tre hanno parecchi anni più di me, sono socievoli e alla mano.

Il tempo scorre via liscio, morbido (ma con la giusta nota di croccantezza, come il trancio di ombrina su crema di topinambur con cuori di carciofi fritti… Masterchef, I hate you); la conversazione è gustosa quanto il cibo, e mi ritrovo a pensare che l’età non conta nulla.

Le persone sedute al tavolo con me hanno storie da raccontare perché hanno vissuto esistenze piene: l’amico della coppia ha vissuto a Shangai per lavoro (mangiando ravioli al vapore dal ripieno rivoltante che non vi sto a specificare perché vi amo profondamente), ha la moglie di Glasgow e mi chiede se ho mai visto la meraviglia delle Highlands del nord! La sua città preferita è Londra. Un raggio di sole illumina la sua folta chioma candida, e il suo cane femmina, sinuoso e nero, affonda il muso nelle mani del suo padrone come a voler condividere l’onda fluida dei ricordi.

Io so di star bene, a mio agio. Come sono a mio agio con i figli ventenni dei miei coetanei, con la loro scoperta fragilità e il bisogno di non essere criticati. Appassionati di anime giapponesi e Stranger things e Harry Potter e drama coreani. Come me, che non smetterò mai di assecondare l’adolescente che annaspa e sogna dentro di me.

L’età non conta nulla: sono le storie, l’appassionata voglia di vivere graffiandosi le ginocchia e scoprendo la rischiosa bellezza di scendere dal treno in corsa perché abbiamo visto dal finestrino un posto nuovo da chiamare casa, un viso sconosciuto che ci sembra già famigliare.

E dopo tanto correre, fermarsi con il desiderio di riempirsi gli occhi di sole e godersi l’attimo perfetto.

Non stanche parole, riflesso di una vita che non ha mai virato dal suo binario morto; nessuna rassegnazione, vuota conversazione di sbiadite trivialità. No, non mi interessa parlare di pensioni, politica, scuole, doposcuole, ospedali, e di ciò che fa tizia con caio e caio con tizia. Am I the strange one?

Piuttosto sto da sola, a sognare.

Quesito cosmico: anche il vostro divano ha le ali?

 

The thing I like

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Miei adorati, giunse il gelo.

In vedetta (e con veletta) dalla plancia del mio divano, getto un’occhiata mesta attraverso i vetri della finestra, scorgendo solo quel plumbeo schifido che mi fa salire il turpiloquio più estremo, quello che riservo agli acerrimi nemici.

Perché i nemici devono essere acerrimi: non mi scomodo per meno!

Se qualcuno ancora osa trillare con voce argentina che adora il freddo, i caminetti scoppiettanti, il grog e la grolla dell’amicizia e il punch e le coperte di pelliccia e gli sciarponi colorati e la nebbia la neve il ghiaccio e il fiato che sfiata ( e che non mi si nomini la parola con la N maiuscola: le maglie con le renne non si abbinano al tacco dodici)… scusate, un’immagine raccapricciante si è materializzata nella mia mente, devo farmi portare i sali…

Un attimo di raccoglimento per riaversi dal trauma… fatto!

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Specchio

Mirror mirror on the wall

who’s the fairest of them all?

Sul mio viso adolescente si rincorrevano lentiggini e dubbi che nascondevo tra le onde bionde; alzavo lo sguardo verso il cielo soltanto dentro stanze vuote, dopo il coprifuoco. Scivolavo rasente i muri per confondermi al ruvido grigio, sbucciandomi il cuore.

In classe leggevo a bassa voce, ma la sera cantavo a squarciagola i Simple minds e i Depeche sul mio palcoscenico di lenzuola azzurre, la finestra aperta su cicale e lucciole, con la radio che mandava una canzone dedicata da me a me.

Non conoscevo l’arte di camminare sui tacchi ma ballavo sola, a piedi nudi su un filo sospeso tra la mia isola senza approdi  e la terraferma.

Il grande specchio rettangolare riprendeva inesistenti dialoghi, il sorriso di sfida truccato per non uscire di casa, un vestito aderente che non avrei mai indossato fuori dai miei confini protetti. La mia divisa era una camicia a scacchi maschile, ampia quanto il timore di mostrarmi, e pantaloni neri, opachi dove le mani impacciate strisciavano il loro disagio.

Ormai non tremo più da anni, e canto quando mi va di cantare.

Eppure a volte, con la coda dell’occhio, colgo il mio riflesso nello specchio grande, come se non fosse vetro ma pellicola resistente, la fotografia più intima, senza veli: le ciglia abbassate e umide, piccola piccola, sfuocata dal tempo, dalle lacrime, da quel subdolo residuo della paura di vivere che ancora non mi abbandona.

 

 

 

 

Grigio

Ah! l’ironia, sì!
non ci perde mai di vista
è come una pioggia estiva
che ci guarda naufragare

-Quintorigo-

Miei diletti lettori, sapete quanto possa essere insidiosa una pozzanghera?

Sto tentando di raggiungere quel luogo (qualunque esso sia) e sono in ritardo; è lunedì, e dal cielo scroscia un diluvio biblico: secchiate di fastidio traverso che vanificano ombrelli e copricapi, andando a rovesciarsi nell’imboccatura del cervello per poi scendere lungo il collo e giù, fino a toccare il fondo.

Intorno a me, fantasmi. Figure monocromatiche che si muovono come batteri imprigionati sul vetrino, ectoplasmi a testa china che cercano varchi inesistenti tra giacche permeabili al grigio. Il marciapiede intriso d’acqua è in fin di vita e crepa, minacciando cadute, mentre l’asfalto della strada cede alla debolezza e mostra le sue lacune. Pozzanghere.

Come un bambino che gioca a campana, tento di evitare le pozze saltando su un solo tacco, ma mi sento come un pedone che vuole vincere sopra una scacchiera senza re. Una battaglia persa in partenza perché priva di scopo: non esiste destinazione che valga il pernicioso rischio alla salute cui sono sottoposta!

Mentre  le mie Chanel affondano nella pozzanghera, io guardo dentro l’abisso  e l’abisso guarda dentro di me. Il mio viso, riflesso nello specchio d’acqua piovana, ha l’espessione rassegnata del tapino che apre la busta contenente l’ennesima bolletta, destino avverso e prevedibile di un lunedì senza fine, che comincia come un lunedì e continua come un lunedì.

L’abisso si spalanca in una nera orbita indagatrice, pronta a cogliermi sul fatto. La ladra che c’è in me si ribella, incapace di firmare una confessione estorta a causa di sventurate circostanze climatiche.

Fisso le mie labbra esangui, serrate in una linea piatta, e scarico 360 joules di joie de vivre: “Je m’en fous!” esclamo, e lascio che una folata gelida mi rapisca l’ombrello.

Intorno a me, bipedi grigi arrancano sulle caselle alla ricerca del senso della vita: alzarsi dal letto e sbarcare il lunario, come qualsiasi lunedì.

Mi abbandono all’ironia, alle contingenze, al fato. Estraggo dalla borsa il mio rossetto preferito e lo passo sulle labbra con mano ferma e sapiente. Rossetto rouge, come un sentiero di foglie d’acero brillanti sopra il liquido acciaio battente. Rossetto magico, che volge le labbra al sorriso.

Rossetto waterproof,  bien sûr!

Solito quesito cosmico: esistono rain boots con tacco dodici?

 

Bridge over troubled water

 

La Desmond che c’è in moi

Frangar, non flectar

Miei cari, mi assentai un attimo, ma torno a codesto blog con rinnovato vigore e immarcescibile slancio creativo, a mento alto e mani sui fianchi nonché filo di trucco e filo di tacco (anche se le Louboutin preferite, ahimè, sono andate perdute nella bieca brughiera di Bodmin).

In molti vi sarete chiesti perché mi celai, alcuni avranno temuto il peggio, e io sono qui, a tranquillizzare gli animi dei più ansiosi: la mia fedina penale è ancora immacolata (nonostante io non sia fulgido esempio di onestà), i miei polsi non hanno provato il vergognoso e gelido abbraccio di un paio di manette ostili, niuno ha puntato il dito contro la mia graziosa personcina gridando: “Al ladro, accorruomo!”.

Non ho commesso atti illeciti (secondo il codice penale). Non ho spartito bottini e non mi sono introdotta senza permesso in alcun edificio contenente preziosi et affini. Non ho indossato abiti da gran soirée e non ho frequentato la high society, non ho osservato memorabili tramonti e sorseggiato champagne a bordo piscina di un lussuoso Ritz-Carlton in qualche paradiso fiscale circondato dall’ oceano più cristallino.

Ho piuttosto attraversato procellose acque come a qualsiasi umano, di tanto in tanto, capita di attraversare, ma veletta e volontà mi hanno permesso di giungere sana e salva all’agognata riva. A volte ho bevuto sale senza distinguere se fosse mare o pianto; ho perso di vista la Stella Polare, mi sono persa e sentita perduta.

Ho urlato al silenzio che mi ha risposto.

Infine ho riso con fragore, a gambe larghe e petto in fuori come una sguaiata commediante d’avanspettacolo, e ho accolto i fischi del pubblico con la leggerezza di chi ha calcato i palcoscenici sul tetto del mondo e nei bassifondi della disperazione.

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Parbleu, quanta solennità! Vorrei essere frugale, ma mi scappa il melodramma…

Quesito cosmico: son più donna o primadonna?

Time flies

Risultati immagini per be right back post-it

Post fata resurgo

La veletta restò impigliata tra erica e rovi, nelle brughiere di Bodmin, rivelandomi inattesa innocenza. Al solito, non mi sorpresi granché: disappunto più acuto fu il rossetto sbavato e le mie Louboutin preferite,  lordate per sempre dall’argilla fradicia di rovesci celtici.

“Tiens!” sibilai, ma fu stizza di un breve momento, evaporata sul nascere come pioggia che schianta sull’asfalto d’agosto, come lacrime di coccodrillo tra ciglia bugiarde.

Lo presi come un segno, il momento di svolta, la pagina da girare. Non tenere la retta via, su tacco dodici, comportava troppe storte. Lanciai uno sguardo drammatico al maestoso nulla che avrebbe accolto la rinascita della fenice; la brutale bellezza dell’essenziale, i colori ruvidi, il silente assenso dei tors mi erano testimoni, a  sancire il mutamento.

Un’altra me premeva dietro le cerniere del bagaglio a mano, nelle segrete del cuore: abiti senza zeri, per mostrarmi nuda. Struccante per maschere, acqua di rose con le spine, specchietto dell’anima.

Svestirmi richiese risoluta determinazione eppure, mentre gettavo a terra l’ultimo pezzo d’armatura, mi scoprii canticchiare qualcosa. La marseillaise, forse, o era Lucy in the sky with diamonds?

La mia voce era puro candore.

Quesito cosmico: parbleu, che cosa ci facevo nelle brughiere di  Bodmin?

 

 

 

C’è un cadavere in biblioteca

the body in the library

“C’è un cadavere in biblioteca, sir!”, annunciò Mr. Stevens la mattina di Natale, mentre tutti noi, la famiglia al completo, stavamo facendo colazione a Greenway House per la prima volta dopo cinque anni vissuti in giro per il mondo.

“Parbleu!”, esclamò maman, continuando a sorseggiare il suo cafè au lait, “My goodness, not again!”, aggiunse daddy senza smettere di spalmare il burro, con precisione inglese, sulla fetta di pane abbrustolito.

Zio Alistair scosse la testa in silenzio, indirizzando un’alzata di sopracciglio fugace a papà, mentre zia Tatti lanciò un’occhiata panoramica sulla tavolata e concluse: “Qui ci siamo tutti…non sarà qualcuno della servitù? Sarebbe un vero peccato: è così difficile trovare del buon personale al giorno d’oggi…”.

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Zio Barbablù

barbablu
Uncle

Miei diletti, osservate l’uomo qui sopra dall’aria elegante e posata e ditemi: notate la somiglianza? Mais oui, tale e quale a daddy!

David_Niven
Daddy

Zio Alistair è il fratello maggiore di papà ed è un ingegnere di fama mondiale: ha avuto una cattedra all’Università di Boston, ha brevettato l’attuale sistema che gestisce il funzionamento dei semafori di tutto il globo, ha progettato l’impianto stradale delle grandi arterie internazionali (e, I believe, anche della Via Lattea). A genius. With moustache.

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