Numb

Don’t grab
Don’t clutch
Don’t hope for too much
Don’t breathe
Don’t achieve
Or grieve without leave

La conoscete, vero, quella sensazione?

Girotondo isterico di gente, facce, voci, strade che cammino perché devo mentre il cuore è in stracci, rappezzato sommariamente per continuare a farmi male, a stringermi nel pugno del tempo che si muove mentre io sono fermo, paralizzato nell’ultima emozione che mi hai sferrato a tradimento, l’ultima tua frase che mi hai tatuato a forza sulla pelle, l’ultimo tuo sguardo che cercava la valigia e allora corro, mi scapicollo verso il giardino della falsa speranza dove ho tentato di coltivare illusioni, ma ho dato fondo alla mia scorta d’acqua e non restano che arida realtà, mozziconi di promesse, avanzi di ricordi dalle radici resistenti che cerco di estirpare, strappare dalle profondità del mio terreno che non ha crepe ma burroni, orridi d’infinito buio e stupore che non passa, non s’arrende, arranca sugli specchi e scivola, si scortica, si sgretola e si fa certezza.

Voglio anestetizzarmi, drogarmi di silenzio, ovattarmi il respiro fino ad addormentarmi, cadere in coma affettivo, linea piatta dell’amore, lobotomia, amnesia, numb.

Non svegliatemi. Mai più.

Precisazione cosmica: ogni riferimento a luoghi, persone, fatti autobiografici è puramente casuale. Questa è fiction, folks!

Marte e Venere (rigorosamente in ordine cronologico, of course)

www.mondadoristore.it

Pioveva sui nostri corpi spogliati, un vero nudifragio
Alessandro Bergonzoni

Marte.

Era una cosina delicata e piccina ma con tutte le curve al loro posto, da imboccare senza indicazioni stradali. Aveva altresì occhioni pieni di stelle luccicanti, ciglia ricurve sulle quali appoggiare sospiri, e labbra adulte e consenzienti, facili al sorriso e ai baci. Quando parlava, era un trillo vibrante e chiacchierino: non importava ciò che dicesse, contava soltanto seguire la nota in salita che poi si spezzava in vivaci cinguettii, come un sacchetto di biglie colorate lanciate giù per la scala. Faceva spallucce all’esistenza e mostrava la lingua a chi invidiava la posizione che era sua per merito: sotto i riflettori, al centro del palcoscenico, tra petali di rose rosse. Le regalavo perle e viaggi sulla luna sperando di essere l’unico a farla sentire vera, dopo la notte insieme. E invece mi ha lasciato, senza dirmi perché ma con lividi sul mento e il cuore, e io piango al bancone del bar, mentre Gigi e Pitbull mi organizzano una serata per dimenticare al ristorante brasiliano…

Venere.

Lo avevo avvisato: “Se ti sento ancora definirmi “curvy”, ti stendo con un gancio al mento e un calcio nei tuoi gioiellini”. E l’ho fatto, sfruttando l’effetto sorpresa: mamma lo dice sempre che ho la forza (e la grazia) di un muratore di due metri, e che i quaranta centimetri d’altezza che non si vedono li tengo nascosti come il mocio che si allunga alla bisogna (ogni tanto mamma parla come Marte). Dice anche che è vero che l’amore è cieco, ma che io sono miope come la talpa di Lupo Alberto. Lo so, sono logorroica e ho la voce della Chiabotto che fa plin plin, ma quando cerco di fare un discorso serio, lui mi tasta le tette e mi sussurra che sono il suo cricetino. Oppure mi fa uscire con la sua compagnia di decerebrati, con quelle quattro arpie che mi scannerizzano tipo metal detector, per vedere se la borsa è cinese o borbonese. Se ogni tanto mi avesse ascoltato! Non voglio mica la luna, ma smettila di regalarmi le rose e l’intimo della Perla che costa un botto, e poi non imbrocchi mai i miei gusti: finisce sempre che scegli i perizoma con i brillocchi che sono comodi come la sabbia nel letto! Vabbé, domani è venerdì e la Maia e la Lolli mi portano a fare baracca al ristorante brasiliano…

Quesito cosmico: to be continued?

I’ve got no feisbuc

È uno di quei giorni che
Ti prende la malinconia
Che fino a sera non ti lascia più.

A me succede in quei giorni.

E non cellò. Gnornò ‘gnornò!

Maree di like: scrivo un commento a Pincopallo, e ricevo quindici like. Mi limito a un semplice: Bello!, e ricevo quindici like. Da sconosciuti, sui blog degli altri. E stop.

Una dissenteria di like. Like diarrotici. Ma si vince quaccheccosa? I mean: se tu metti tanti like, vinci un premio, un riconoscimento, una medaglia? Un coupon per un massaggio d’alghe, uno sconto nel ristorante sushi? .Un premio in bitcoins, un award tipo catena di Sant’Antonio?

Pour moi potete spararmi like a raffica: liberté, egalité, fraternité, dico io.

Credo che il motivo sia feisbuc. Dove il like è un apostrofo rosa tra le parole sti e cazzi (come direbbe la mia lovely Almost). Ma io feisbuc non cellò! Quindi non so!

Allora che fò? Mi metto un like!

Considerazione cosmica e ditemi se sbaglio: si scrive molto più di una volta. Ma una volta le parole erano nostre. Ora sono citazioni, meme e faccine.

The deep sanctity of cazzeggio

Miei meravigliosi lettori, so che codesto mio aspetto austero fatto di veletta, guanti neri e gramaglie, induce i più sensibili tra voi a pensare che io sia un donnino dedito alla contemplazione lirica, incapace di godere dell’attimo fugace se non ha tra gli artigli un calice di champagnino davanti al tramonto di un mare tropicale, in hotel dalle cinque stelle in su et in compagnia di sagaci professionisti in carriera, magnati e nobiltà, laureati cum laude e in grado di parlare almeno tredici lingue, tra cui il sanscrito e il sumero.

Orbene, per quanto non disdegni quanto sopra (anche se trovo nobiltà, magnati e professionisti in carriera alquanto sopravvalutati in termini di gozzoviglio davanti al tramonto), vorrei portare alla luce la mia vera me, quella che sogghigna sotto la veletta, ricordandovi altresì che ciò che indosso non son più gramaglie (mr. White, buonanima, alberga nel girone infernale che gli compete ormai da qualche annetto), ma l’emblema dell’eleganza e della verità in sé racchiusa: il nero che sfina.

Potrò anche sottoporvi scritti forbiti, vocaboli desueti e prose delicate, ma sappiate che so far uso del turpiloquio quanto in una puntata di Gomorra, che apprezzo un vaffanculo ben piazzato, e che (e sottolineo che), ho una passione smodata per il cazzeggio.

Cazzeggio per puro diletto, sfrontato e senza fronzoli, perché la vita volge al tedio con inusitata sveltezza, lo sfrancicamento di zebedei è appostato dietro ogni angolo e la spessa grevità delle rogne suona all’uscio ogni due per tre.

Viva la leggerezza del cazzeggio, dell’ironia, del sarcasmo, dei capelli folti, le polpette, i brillocchi, le calve tettute, le balere, i tatuaggi sulle chiappe e il ghigno perenne!

E chi non ghigna con me… sticazzi!

Take me somewhere nice

What would you do
If you saw spaceships
Over glasgow?
Would you fear them?

Una domenica di sole e cieli tersi, l’aria ferma, tiepida, e il mare, dopo giorni agitati, che si regala tregua e sonnecchia, placido, muovendosi lo stretto necessario ma compensando con un trionfo sfacciato di colori luccicanti.

Tavolo all’aperto nel ristorante di amici, occhiali neri da diva e giacca appoggiata allo schienale. Un vino francese di cui non ricordo il nome, bianco e profumato. Buona compagnia, incrociata per caso. E, come sempre, le cose che non progetti risultano essere piacevoli sorprese.

A parte l’approprazione indebita, of course. Ma questo è un’altra storia, un capitolo ormai chiuso della mia vita di ex-ladra gentildonna. Ora la mia veletta è immacolata come la fedina penale.

Ma non divaghiamo! Come dicevo, miei adorati, mi ritrovo al desco con il mio accompagnatore di cui non dirò nulla neanche sotto interrogatorio, ma sappiate che è uomo di presenza fisica e spessore morale. E ha una dote impagabile: pensa prima di parlare. Spesso, dopo aver pensato, decide di tacere. Insomma, una perla rara (e voi sapete quanto io ami gli oggetti preziosi). Con noi, i genitori dei gestori del ristorante e un loro amico di vecchia data che conosco per la prima volta. I tre hanno parecchi anni più di me, sono socievoli e alla mano.

Il tempo scorre via liscio, morbido (ma con la giusta nota di croccantezza, come il trancio di ombrina su crema di topinambur con cuori di carciofi fritti… Masterchef, I hate you); la conversazione è gustosa quanto il cibo, e mi ritrovo a pensare che l’età non conta nulla.

Le persone sedute al tavolo con me hanno storie da raccontare perché hanno vissuto esistenze piene: l’amico della coppia ha vissuto a Shangai per lavoro (mangiando ravioli al vapore dal ripieno rivoltante che non vi sto a specificare perché vi amo profondamente), ha la moglie di Glasgow e mi chiede se ho mai visto la meraviglia delle Highlands del nord! La sua città preferita è Londra. Un raggio di sole illumina la sua folta chioma candida, e il suo cane femmina, sinuoso e nero, affonda il muso nelle mani del suo padrone come a voler condividere l’onda fluida dei ricordi.

Io so di star bene, a mio agio. Come sono a mio agio con i figli ventenni dei miei coetanei, con la loro scoperta fragilità e il bisogno di non essere criticati. Appassionati di anime giapponesi e Stranger things e Harry Potter e drama coreani. Come me, che non smetterò mai di assecondare l’adolescente che annaspa e sogna dentro di me.

L’età non conta nulla: sono le storie, l’appassionata voglia di vivere graffiandosi le ginocchia e scoprendo la rischiosa bellezza di scendere dal treno in corsa perché abbiamo visto dal finestrino un posto nuovo da chiamare casa, un viso sconosciuto che ci sembra già famigliare.

E dopo tanto correre, fermarsi con il desiderio di riempirsi gli occhi di sole e godersi l’attimo perfetto.

Non stanche parole, riflesso di una vita che non ha mai virato dal suo binario morto; nessuna rassegnazione, vuota conversazione di sbiadite trivialità. No, non mi interessa parlare di pensioni, politica, scuole, doposcuole, ospedali, e di ciò che fa tizia con caio e caio con tizia. Am I the strange one?

Piuttosto sto da sola, a sognare.

Quesito cosmico: anche il vostro divano ha le ali?

 

Dalla terrazza

Ho dimenticato dove fosse la terrazza.

So che era una città calda, forse Siviglia, oppure Lisbona; ci davamo silenzioso appuntamento su quella terrazza notturna che cingeva in un abbraccio impacciato la pensione macilenta, dalla reputazione dubbia quanto quella dei clienti che vi sostavano per un’ora o per una vita intera.

Ci univano una boccata di fumo e lo sguardo disincantato di chi dal destino non ha mai ricevuto una mano di carte fortunata. Non ci siamo mai scambiate un sorriso: la dolcezza era bandita dalle nostre labbra sfigurate da rossetti scadenti e vistosi. Eppure, il rituale di incontrarci ogni notte, appoggiate contro la ringhiera screpolata a fumarci via la giornata, era un breve respiro prezioso che nessuna mano maschile poteva toccare, neppure lasciando una mancia sostanziosa.

Guardavamo l’umanità dall’alto, finalmente piccola e lontana, e ci accorgevamo di indugiare sulla stessa coppia clandestina, lesta nel cercare rifugio in qualche appassionato androne, o l’anziano signore dall’aria distinta, con bastone e cappello, che sembrava passeggiare senza meta, fuori ritmo, incurante del contorno losco e chiassoso.

Una volta -stava ormai albeggiando-, il signore distinto alzò la testa verso il nostro balcone. La mia compagna di sigaretta si tirò indietro emettendo un grido soffocato, poi corse dentro. La tenda grigia della sua stanza fluttuò con inaspettata levità, accarezzandomi la crocchia di capelli.

La notte successiva lei non uscì a fumare, e neppure le notti a venire. Non la vidi mai più. Ho memoria dei suoi ultimi occhi, le pupille dilatate che riempivano di buio l’iride azzurra. I muscoli del collo tesi, le mani avvinghiate alle spalle, le unghie piantate nella carne.

Provai dispiacere: non le avevo mai chiesto il suo nome e lei non aveva chiesto il mio.

“Forse dovrei smettere di fumare”, pensai, gettando il mozzicone nel vuoto.

The thing I like

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Miei adorati, giunse il gelo.

In vedetta (e con veletta) dalla plancia del mio divano, getto un’occhiata mesta attraverso i vetri della finestra, scorgendo solo quel plumbeo schifido che mi fa salire il turpiloquio più estremo, quello che riservo agli acerrimi nemici.

Perché i nemici devono essere acerrimi: non mi scomodo per meno!

Se qualcuno ancora osa trillare con voce argentina che adora il freddo, i caminetti scoppiettanti, il grog e la grolla dell’amicizia e il punch e le coperte di pelliccia e gli sciarponi colorati e la nebbia la neve il ghiaccio e il fiato che sfiata ( e che non mi si nomini la parola con la N maiuscola: le maglie con le renne non si abbinano al tacco dodici)… scusate, un’immagine raccapricciante si è materializzata nella mia mente, devo farmi portare i sali…

Un attimo di raccoglimento per riaversi dal trauma… fatto!

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My happy ending

… e vissero tutti felici e contenti.

-The beginning-

“Mi hai fregata, caro Walt!”

Cenerentola studia la propria faccia nello specchio del bagno, ma conosce a memoria le borse sotto gli occhi e l’indomita frustrazione che le fa pulsare la vena sulla tempia sinistra. Tira un’amara boccata di sigaretta mentre verifica lo stato delle sue unghie: cheratina sbeccata, opaca come quella mattina di novembre dai colori incerti ma dal vento deciso e chiassoso, infastidito per il solo fatto di esistere.

“Bella la metafora del castello bianco e della vita da principessa, caro Walt!”

Cenerentola gracchia rauchi gargarismi e sputa fiele nel lavandino, imprecando contro l’universo. Sente il rumore della porta di casa che si chiude: è suo marito, il principe azzurro, che sta andando in ufficio sussurrando un “ciao” poco convinto. Tornerà solo alla sera, ma questa è una buona notizia per entrambi.

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